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The Pretender

Camminava sola lungo interminabili viali assolati attorniata da edifici storici, splendide facciate e silenzio. Intorno a lei la vita si svolgeva pigramente, i commercianti, gli ambulanti e i turisti si muovevano senza fretta sotto un magnifico sole. Ma il suo cuore batteva troppo forte, sembrava volerle esplodere nel petto.

Solo chi l’avesse guardata negli occhi avrebbe, forse, percepito il male che la consumava. Occhi spalancati sul silenzio che urlavano aiuto, pur sapendo che nessuno al mondo avrebbe potuto salvarla. E dentro le vene bruciava l’eroina di mille siringhe anche se non aveva mai toccato un ago, perché la disperazione quando supera una certa soglia diventa dolore fisico. Persa nella sua meravigliosa città, fingendo di essere una persona serena, guardando gli archi e i vicoli, cercava di aggrapparsi alle cose da fare per non morire.

Il lavoro, che l’aveva portata via da tutta la morte che aveva colpito la sua famiglia, i colleghi, le cose che scriveva e poi lui. Non se lo spiegava come fosse successo, ma si era ritrovata in balia di un uomo violento che aveva cercato di aiutare. Lui, un disadattato sociale pieno di soldi e complessi e lei, che dei soldi non gliene era mai fregato niente. E poi piano, piano lui si era insinuato nella sua vita. Aspettando più di un mese perché lei accettasse di uscire con lui, usando tutto il repertorio di un tossicodipendente, dalla pena alle minacce, dalle lacrime al sarcasmo. E lei se n’era fatta carico, illudendosi di vincere la sua malattia.

Camminava senza meta, il corpo scosso e provato dai lividi, gli occhi aridi senza più lacrime.
Non sentiva alcun rumore perché nella testa le rimbombavano note che ancora non erano state scritte.

Fu solo anni più tardi che risentì la musica che le suonava in testa quel giorno.
Per caso, grazie a qualcuno che le dava gioia e che gliela fece ascoltare.
E quando lesse le parole capì che la musica, a volte, sa coniugare perfettamente il verbo Sentire.
E quando guardò il video capì di essere sopravvissuta.
E quando la rabbia si sciolse fu felice.

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  1. 27 Gennaio 2010 a 14:05 | #1

    @Peppermind
    Quando rimetto a posto la libreria (non la candela!)faccio una ricerca sui miei libri di filosofia del liceo… Certo è che se non te lo ricordi tu che l’hai studiata all’università, mi fai venire il dubbio che abbia sbagliato filosofo. Sarebbe un colpo terribile! Essere cresciuta con Schopenauer come mito per via di questo e di un altro paio di concetti fondamentali, prima base inconsapevole del mio ateismo, e scoprire che non era merito suo! AAArgh! Mi serve subito un bignami di filosofia!!!

  2. 27 Gennaio 2010 a 12:06 | #2

    Non ricordo quel detto di Schopeneuer, però mi pare in sintonia, sì…

  3. 23 Gennaio 2010 a 8:34 | #3

    Vi’, un altro dei pochi gruppi che apprezziamo entrambi.
    Però.
    Buon fine settimana, sore’.

  4. 21 Gennaio 2010 a 12:14 | #4

    @Peppermind
    A volte ri-inizia, hai ragione, ma se hai superato e rielaborato bene il vecchio, il dolore nuovo è diverso e lo affronti meglio. E comunque, la speranza di non soffrire è l’ultima a morire, ma resta comunque una speranza per tutta la vita. Lo diceva Schopenauer che la felicità è una pausa tra un dolore e l’altro. Giusto?

  5. 21 Gennaio 2010 a 10:49 | #5

    Già… dolore, sopravvivenza… scoperta di sé, tornare a respirare, felicità.

    Poi riinizia >.>

    (no, spero proprio di no)

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